E' nella tarda età che il cineasta Akira Kurosawa riesce ad imprimere nei suoi film una carica sensibile fuori dal comune, entrando con profondità nell'animo umano come pochi altri. Questo risultato deriva senz'altro dal tormento che la pressante sofferenza (ricordiamo le numerose perdite familiari, la depressione, il tentato suicidio, la rinascita) ha apportato alla sua esemplare vita d'artista. Questo Kurosawa ormai alle soglie degli ottant'anni, appare ancora dotato di una forza inesauribile, tanto che riesce a materializzare dalla sua mente un adattamento personale del Re Lear di Shakespeare all'epoca del feudalesimo giapponese. L'ideogramma Ran (letteralmente "caos") rappresenta la sintesi di tutta l'opera e designa la tumultuosa realtà di una stirpe dedita solo alla conquista del potere. Il dramma shakespeariano è stato scelto come intermediario per mostrare al pubblico questa sua visione e noi possiamo chiaramente paragonarlo al modello etico della società globalizzata in cui viviamo. La storia segue le vicende del vecchio Hidetora, signore feudale deciso a dividere il suo regno tra i figli Taro, Jiro e Saburo, i quali spinti dalla fame di potere si faranno guerra l'un l'altro.
Grazie ad un montaggio da vero maestro (non per niente è lo stesso Kurosawa ad occuparsene) il film appare davvero come una motion picture, un quadro in movimento, così ricco di colori, silenzi e di un torpore ipnotico avvolgente che rispecchia magnificamente la stupidità umana. La fotografia è imponente e fedele alla naturalezza delle luci, gli ambienti disadorni metteno in risalto i costumi sfarzosi indossati dagli attori (per i quali è stato vinto anche un premio Oscar) curati dei contrasti più belli. Il
film da un lato ricorda le grandi narrazioni epiche, dall'altro mostra
come gesta guerresche eroiche, vittorie nate dal sangue non siano altro
che sconfitte sul piano umano. Il vecchio Hidetora verrà costretto a partecipare a tutto il caotico susseguirsi delle vicende, come stesse scontando le colpe del passato che lo perseguitano come fantasmi (bellissimo l'incontro col suonatore cieco Tsurumaru). Il passato nasconde tremende verità per Hidetora, che non potrà mai essere un giusto: sul suo viso si legge lo sgomento indelebile per le proprie azioni. Un mondo senza moralità in cui le scelte individuali avvelenano
l'aria di polvere e sangue (le terre desolate ne
sono una dimostrazione), ma tutto ciò come sarà visto dalla divinità? Il simbolismo in alcune scene allude proprio a
questo, la presenza costante di una realtà trascendente pronta ad
osservare assomiglia tanto ad una pergamena con su le effige del Buddha, dimenticata in una fessura fra le rocce.
Scena memorabile: Il monologo del buffone Tango (antitetico per virtù) sul cadavere di Hidetora
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