Nel 1983 a sorpresa di tutti, Shohei Imamura vinse la palma d'oro a Cannes con il film Narayama Bushiko in una gara che lo vedeva gareggiare con titoli e registi di enorme levatura (Bresson, Scorsese, Tarkovskij, Oshima per citarne alcuni). Ispirato dal film originale del 1958 di Kinoshita Keisuke, Imamura racconta la storia di un villaggio rurale situato nell'estremo nord del Giappone sulla montagna sacra Narayama. Mostrare al pubblico le usanze e la cultura di un popolo così isolato non fu un'impresa semplice. Imamura ed il cast si ritirarono per un intero inverno in quel luogo, con lo scopo di riprendere tutte quelle avversità che si potevano incontrare nella stagione più fredda e rigida dell'anno. Il tema principale dell'opera ruota attorno al rito del distacco: secondo un'antica usanza, le persone che raggiungevano i settant'anni dovevano recarsi sulla montagna Narayama ad attendere la morte. Questo gesto estremo significava la possibilità di sopravvivere per un giovane del villaggio. Un sacrificio dovuto ad una natura ostile che avrebbe però preservato l'integrità sociale. Data la scarsità di cibo e le difficoltà climatiche il villaggio poteva così eludere il problema della carestia. Il film si sviluppa sulla storia dell'anziana Orin, che prima di lasciare la famiglia desidera a tutti i costi assicurare ai propri figli una vita degna di essere vissuta. Decide dunque di intervenire nelle loro vite. A Tatsuhei, il primogenito rimasto vedovo, porterà nuovi importanti cambiamenti che avranno conseguenze per tutti, invece a Risuke, il secondo figlio che è anche ritardato, troverà una donna affinchè possa far esperienza di un rapporto sessuale.
Imamura riesce a cogliere da questa narrazione alcuni aspetti di altissimo valore umano, che certamente non vengono catturati dalle prime immagini, ma maturano nello spettatore nel corso dell'opera. Il realismo con cui tutto viene presentato semplifica la figura dei personaggi a tal punto che ne percepiamo la naturalezza: ogni sentimento, ogni desiderio, ogni paura provata vengono espressi con spontaneità dai comportamenti di questi ultimi. La civiltà moderna è ben distante dalla società retrograda di Narayama, è per questo che ci è possibile l'osservazione di determinate qualità ormai andate perse, quali l'espressività e la spiritualità. Non ci sono veli ad ammorbidire quello che vediamo, tutto viene mostrato con totale disinvoltura, Uomo e Natura legati dagli stessi intimi impulsi. Qualsiasi cosa nel quadro di Imamura vive nel principio di rapporto, quello tra madre e figlio, quello tra amanti, quello fra se stessi e la Natura e quello della Natura stessa (magnetica la scena nel bosco dell'accoppiamento fra serpenti in sovrapposizione a quella fra Tatsuhei e la consorte). L'impulso erotico mostratoci riscalda i colori di un freddo inverno, ognuno è spinto a viverlo a modo proprio per cercare e dare qualcosa all'altro, ma non tutti preservano quel bene di cui godono. Ed è alla fine del ciclo che Orin, ormai preparata, parte con Tatsuhei verso il luogo Sacro, dall'aspetto tetro e pauroso come qualcosa che ancora non conosciamo. Un ultimo abbraccio prima della separazione. Inizia a nevicare. Un serpente addormentato e avvolto ad anello chiude il film così come lo ha aperto.
Scena memorabile: l'abbraccio struggente fra madre e figlio nell'ultimo addio..

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